Riflessioni sulla vertenza FIAT


Il 2 Ottobre 1925 Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi fascisti firmavano a Palazzo Vidoni un accordo che cancellava le elezioni delle commissioni interne.

Notate qualche assonanza con la situazione attuale?

Se sì è il caso di iniziare a muoversi…

La FIAT è storicamente un terreno di battaglia sul quale si misurano i rapporti di forza all’interno della società italiana. Nonostante anni di propaganda liberista sulla fine del lavoro operaio ed altre amenità del genere, l’Italia rimane uno dei più importanti paesi manifatturieri del mondo con milioni di operai. Più che il lavoro operaio ad essere finita è l’unità di quel mondo ed il suo peso politico.Dopo la battaglia della Innse qualcosa però sembra essere cambiato ed il mondo del lavoro, pur a costo di durissime battaglie, sembra esser riuscito a riprendere la parola.

Ma torniamo alla FIAT.

Già negli anni ’50 dettava la linea al paese (in contrasto con la prudente linea di Confindustria) seguendo le direttive che venivano dagli Stati Uniti. Come dimenticarsi del famigerato ingegner Valletta, della caccia al comunista e dei reparti confino. Ma se è vero che alla FIAT si sono sperimentate le iniziative padronali essa è stata anche il terreno in cui si è sperimentata la risposta operaia.

Le prime forme di “autonomia operia” (intesa come insubordinazione alle strutture tradizionali del movimento operaio) si sono sperimentate nel 1962 durante la rivolta di Piazza Statuto. Ed è solo quando gli operai della FIAT si sono buttati nella lotta che l’Autunno del 1969 è diventato veramente caldo. Come dimenticarsi anche l’occupazione selvaggia di Mirafiori del 1973, quella dei “fazzoletti rossi”?

Ed è sempre alla FIAT che inizia la controrivoluzione liberista in Italia. Controrivoluzione che avrà tra i suoi massimi alfieri negli anni ’80 il Presidente Americano Ronald Reagan e la premier inglese Margaret Thatcher. Entrambi alfieri della destra ultralibersita. Nell’Ottobre 1979 Cesare Romiti, all’epoca Amministratore delegato del Lingotto, tasta il terreno licenziando 61 operai accusati di violenze in fabbrica e connivenze col terrorismo rosso. L’anno dopo l’azienda annuncia 15.000 licenziamenti. La fabbrica viene occupata per 35 giorni, ma la Marcia dei Quarantamila chiude la partita.

E’ l’inizio dei terribili anni ‘80. E’ la sconfitta storica che ancora paghiamo.

Da lì la FIAT ha via via ridimensionato il suo organico.

Le ultime lotte dure si sono avute nel 2002 quando la prospettiva di un fallimento dell’azienda sembrava imminente. Lo stabilimento di Mirafiori conta ormai solo (si fa per dire) 6.000 addetti. Nonostante la delocalizzazione che ha portato a produrre diversi modelli in varie parti del mondo, sembra quasi che la FIAT intenda mantenere un certo numero di operai in Italia per avere comunque un certo controllo e un certo potere di ricatto verso i vari governi italiani. Del resto la FIAT ha ottenuto la sua posizione dominante grazie, prima alla connivenza con il regime fascista che ne ha sostenuto l’espansione nel mercato interno con l’autarchia. Ed in seguito con laute concessioni dai governi democristiani fino ai giorni nostri.

La casa di Torino ha infatti ricevuto nei decenni aiuti statali diretti e indiretti sottoforma di incentivi, cassa integrazione, privilegi negli appalti per fornire mezzi agli apparati statali e così via. I lauti profitti derivati sono stati invece divisi tra i soliti nomi della finanza italiana attraverso la famosa finanziaria IFI (ora Exor). Come a dire: privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite. Il ringraziamento per questo trattamento di favore è sempre stato lo stesso: ridimensionamento e progressiva desertificazione di alcuni siti produttivi “storici” (leggi Alfa Romeo e Lancia), cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento e delocalizzazione… Il tutto accompagnato da continue ed insopportabili recriminazioni sulla presunta scarsa produttività degli operai italiani…

Ci troviamo di fronte ad un’aziende sanguisuga che succhia e spreme territori, soldi pubblici, lavoratori fino all’osso e poi se ne va, producendo dove costa meno (ma vendendo le merci allo stesso prezzo di chi produce in Europa) e lasciandosi alle spalle devastazione sociale e naturale (leggi aree dismesse).

Gli Agnelli ed il loro management sono sempre stati in prima linea nella resistenza contro le richieste di migliori condizioni avanzate dai lavoratori e, una volta indeboliti i sindacati e minata l’unità degli operai, nella progressiva demolizione di quanto ottenuto faticosamente negli anni. Ora Marchionne vuole imporre un modello americano e sceglie una strada un po’ diversa da quella dei suoi predecessori… allo scontro frontale, alle persecuzioni, alla repressione attuata con il solito aiuto degli sbirri, che nelle lotte operaie hanno svolto sempre il servizio di guardia privata dei padroni, lui preferisce l’esclusione dal tavolo del soggetto con cui non intende trattare, cambiando le regole del gioco con l’uscita dal Contratto Nazionale. Inutile, come fa Susanna Camusso, appellarsi alla ragionevolezza di Confindustria… E’ una palese dimostrazione di debolezza e subalternità… Oltre a dimostrare la mancanza di una strategia complessiva e di un’idea alternativa di paese.

Il peso politico della battaglia è massimo.

Non che l’accordo voluto da Marchionne introduca nulla di nuovo…

Il mercato del lavoro italiano conosce già condizioni di precarità altissima e sfruttamento vergognoso (in primis verso i migranti). Il problema è che se a venire sconfitti sono i metalmeccanici, da sempre la categoria più combattiva, le ricadute sul resto del mondo del lavoro (precari in primis) saranno devastanti. Marchionne tenta di importate in Italia il modello americano. E tenta di smantellare il Contratto Nazionale di Lavoro (una delle poche garanzie che rimangono anche ai lavoratori più deboli). La prospettiva ormai concreta è la precarietà totale come negli States.

Il punto più vergognoso dell’accordo non sta nell’aumento degli straordinari, nella diminuzione delle pause e nel maggiore controllo della malattia. Il punto nodale è l’attacco frontale alla Fiom, che non avendo firmato, non potrà eleggere suoi delegati all’interno dell’aziende. Il sindacato con più iscritti e più votato del gruppo FIAT verrà escluso dalla rappresentanza sindacale. I vari servi ed utili idioti di Cisl e Uil già si sfregano le mani…

La Fiom sta tentando di rompere l’accerchiamento aprendo ai movimenti sociali con giornate importanti come il 16 Ottobre ed il 14 Dicembre. Ma è il mondo del lavoro a doversi muovere in modo compatto. Al di là delle singole e durissime vertenze degli ultimi due anni (Innse, Mangiarotti, Metalli Preziosi, Alcoa, Eutelia, Pomigliano e decine di altre…).

Quello che sembra mancare totalmente al momento è una sponda politica. L’attacco alla Fiom è un triplice attacco che vede ai suoi vertici il PDL, il PD e Marchionne/Confidustria. Ognuno ovviamente recita la sua parte in commedia… E’ su questo che si gioca la battaglia del lavoro oggi. Togliere di mezzo coloro i quali esigono diritti e richiedono politiche sociali. La battaglia dei poteri forti è una battaglia tutta politica contro il complesso mondo della sinistra radicale quindi.

Quell’ectoplasma politico (?) chiamato Partito Democratico si dibatte nella confusione e nell’irrilevanza ed i più fanno a gare a lodare le iniziative di Marchionne come “politiche modernizzatrici”…come se il ritorno dello schiavismo fosse modernità! Le uscite pubbliche di questi giorni di D’Alema e Bersani, del resto, parlano chiaro.

Anche la Cgil sembra piena di dubbi ed incertezze.

Sta anche a noi quindi, coi nostri limiti ed il nostro peso relativo, spingere.

Lo sciopero generale diventa una necessità per respingere l’attacco frontale e l’emergenzialità. Bisognerebbe, però attraverso lo sciopero, sviluppare non solo un NO al modello Marchionne ma anche un modello di lavoro, o di welfare state da proporre. Il welfare state potrebbe diventare la battaglia del movimento e del sindacalismo.

NO all’ACCORDO FIAT

SI’ allo SCIOPERO GENERALE

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