Atterriamo alle 20.40, puntualissimi. Tempo dieci minuti e recuperiamo i bagagli, poi i nostri tre ospiti ci vengono a recuperare e ci portano a casa. Per una settimana faremo campo base qui, un piccolo appartamento in condivisione con altri attivisti solidali che arrivano da diverse parti del paese. Lasciamo gli zaini e usciamo per mangiare qualcosa. Le vie sono semi-deserte, qua e là qualche gruppo di ragazzi intorno ad un paio di locali, motorini che sfrecciano con su due o tre persone rigorosamente senza casco, qualche cane che si aggira e un numero spropositato di mezzi di Carabinieri e Polizia. Ce n’è di tutti i tipi, macchine, gipponi, le due forze principali ma anche Finanza ed Esercito, non manca nessuno e sono ovunque, fermi ai lati delle strade o in giro a pattugliare, ovunque ti volti li vedi, li incontri, ti vedono.
Ci sediamo in una pizzeria dove i ragazzi ai tavoli e della gestione ci salutano subito. Sono le 21.40, siamo qui da nemmeno un’ora.
Entrano alcuni poliziotti. Indicano i nostri ospiti. Gli intimano di uscire. Chiedono i documenti a due giornalisti tedeschi seduti all’esterno, chiedono la stessa cosa a tutti i presenti. Da notare che Simona, Giorgia e Skandar erano stati fermati giusto poche ore prima. Al porto, che da giorni è inaccessibile a chiunque non sia accreditato, per la prima volta avevano visto un gruppo di tunisini ed erano riusciti a scambiarci due parole, sotto stretto controllo della polizia che ascoltava tutto e – ovviamente – aveva annotato i loro nomi e autorizzato il “colloquio”.
Sembra sia proprio questo il motivo del fermo. Dal porto sono scappati nove ragazzi tunisini e la polizia adesso accusa i ragazzi delle Brigate di Solidarietà Attiva di aver favorito e sobillato la fuga.
I modi sono bruschi, nessuna spiegazione viene data e la polizia comincia a perquisire il loro furgone in cerca di chissà cosa. Si attiva nel frattempo quella piccola e generosa rete di solidarietà presente sul posto: arriva un avvocato, alcuni free lance, i ragazzi dell’associazione Askàvusa, gruppo locale che si occupa di solidarietà.
La scena è surreale: una via bloccata, impossibilità ad avvicinare le persone e un furgone rivoltato come un calzino che conteneva, ovviamente, nulla di interessante. Nel frattempo i poliziotti fanno capire l’aria che tira: “…hei, con quella telecamera, la vogliamo finire? Se mi vedo la faccia pubblicata ti denuncio” è solo una delle più delicate e democratiche frasi con cui si rapportano ai presenti. Ad un giornalista del Corriere viene impedito di avvicinarsi anche dopo che ha mostrato il tesserino.
Dopo una mezz’ora abbondante di questo trattamento la Polizia decide che non è soddisfatta: se sti nove clandestini (per loro ovviamente non sono né ragazzi, né tunisini, semplicemente sono identificati per il loro – tra l’altro non vero – status giuridico) non sono nascosti nel furgone allora vuol dire che saranno in casa! In fretta e furia si dirigono verso l’appartamento in cui abbiamo depositato le nostre cose da pochissimo. Ovviamente di mandato di perquisizione non se ne parla nemmeno, solo nei film le cose avvengono così e qui a Lampedusa si sta girando il film più reale che esista e non ci sono regole che valgano!
La perquisizione è frettolosa e per certi versi ridicola, ovviamente dei ragazzi tunisini non c’è traccia, ma in realtà l’”effetto collaterale” che interessa è un altro: far capire a chi viene da fuori così come ai giovani di Lampedusa che c’è un solo modo di vivere questa vicenda, farsi gli affari propri e stare zitti. Simona, Giorgia e Skandar vengono così portati al comando dei Carabinieri per “i verbali di rito”. Ovviamente per scrivere le due paginette scarne del caso ci vogliono quasi tre ore, impegnate in realtà quasi interamente a far pressioni sui fermati perché ammettano responsabilità su questa presunta fuga o chissà su cos’altro. Anche in questo caso la presenza fino a tarda notte di alcune persone solidali e giornalisti, coadiuvati da un avvocato, sotto le finestre del Commissariato, contribuisce a far pressione per il loro rilascio e a non permettere che accadano ulteriori violazioni dei loro diritti.
Poi, siccome la situazione è surreale, mentre siamo in attesa che ci restituiscano i nostri tre ospiti, accadono in contemporanea un po’ di cose: un ragazzo francese presente sull’isola da ormai 5 mesi, attivista del movimento cittadino “Kajack per la vita”, racconta del suo fermo avvenuto due giorni fa, con annessa perquisizione e totale violazione dei suoi diritti (impossibilitato a consultare un legale e senza nessuna assistenza nella traduzione); nel frattempo, escono di corsa Carabinieri, Poliziotti e funzionari in borghese, salgono sulle macchine sgommando verso chissà dove, presumibilmente alla ricerca dei famosi tunisini; appena andati via, giusto per non farsi mancare nulla, un blindato dell’esercito passa nei dintorni. Per fortuna ci sono anche i ragazzi del bar di fronte che ci regalano qualche bottiglia d’acqua e altri che passando chiedono, si informano, si fermano.
Alle tre passate riusciamo a tornare a casa, come inizio non c’è male, oggi si ricomincia.
di Francesco Franz Purpura