QUEER REVOLUTION MAYDAY PARADE 2010

Oggi sono venuta alla Mayday perché mi hanno detto che qui troverò migliaia di persone come me.
E io come sono?
Mi chiamano precaria, disoccupato, studentessa non meritevole, cassintegrato, bamboccione.
Mi chiamano anche madre single, gay, convivente, lesbica, straniero…
Tutti hanno bisogno di chiamarmi in qualche modo: in base a come mi chiamano
possono decidere che diritti ho. Così posso provare a chiedere un sussidio,
iscrivere mio figlio all’asilo, mettermi in lista per una casa, e così via.
Ma se il mio nome non è fra quelli giusti, io non avrò nulla. Se mi va male,
sarò pure discriminata, criminalizzato, espulsa.

Ogni identità segna un confine fra me e i miei desideri, la mia libertà, la mia autonomia.
Ogni identità corrisponde ad un ruolo, ogni ruolo definisce uno stereotipo,
e gli stereotipi servono per controllarci. Per metterci fra i normali o fra
gli anormali, per escluderci o includerci a forza, per renderci ricattabili.
I generi sono un’identità costruita intorno a ruoli e stereotipi.

Chi li utilizza vuole governarci secondo leggi che mettono ordine.
Ma quell’ordine si regge sulle diseguaglianze, sullo sfruttamento,
sull’inferiorizzazione. È l’ordine della sicurezza e dei militari per le
strade, dell’utilizzo dei corpi delle donne per giustificare leggi razziste,
del modello unico e santificato del matrimonio eterosessuale, della violenza
su gay, lesbiche, transgender, bisex, della punizione divina per le donne
che abortiscono, dell’imposizione di modelli machisti e sessisti.
Questo per me significa precarietà: è una condizione di vita che mi impedisce di essere
quello che voglio essere io, cioè liber@.

Voglio reddito anche perché…

…la mia autodeterminazione
non ha prezzo!

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